Tutto ciò che devi sapere sulla mindfulness

Rif. Wired.it

Ecco cos’è e come funziona questa “palestra per la concentrazione”, che fonde i principi della meditazione buddista con le più avanzate scienze psicologiche:

Una riga di tappetini distesi sul parquet, gambe incrociate, respiri profondi e provare a puntare il fuoco dell’attenzione sul “qui e ora”, come se stessimo manovrando i fili di una marionetta dentro la nostra testa. Non contano i pensieri, non contano le emozioni, quello che conta è solo quello che sto facendo in questo momento. È la mindfulness, una tecnica per la meditazione consapevole che lega la millenaria, tradizione buddista alla psicologia scientifica occidentale e che, dopo aver letteralmente spopolato negli Stati Uniti, si sta diffondendo anche in Italia contro stress, ansia e depressione. Non a caso mindfulness è una delle parole chiave nel programma dell’ultimo congresso della Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva (Sitcc), in corso proprio in questi giorni a Genova.

Ma come agisce esattamente la mindfulness? E soprattutto: funziona davvero? Data l’ondata crescente di curiosità sul tema, abbiamo deciso di chiarire qualche punto.

Cosa vuol dire mindfulness
Vi sarà capitato di guidare, fare la lavatrice, alzare i pesi in palestra in modo automatico, con la testa completamente rapita da altro.

Ecco, è in queste occasioni, dove la mente si allontana dall’esperienza precisa che stiamo vivendo, che la mindfulness può intervenire a recuperarla e focalizzarla su quel preciso momento. “Si tratta della capacità di portare l’attenzione al presente in maniera intenzionale e sospendendo il giudizio, e può portare a una maggior consapevolezza delle esperienze che viviamo” ci spiega Romina Castaldo, psicoterapeuta della Sitcc e docente proprio di tecniche di mindfulness presso la Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva di Como. In poche parole, un processo mentale che ha sì le sue origini nella meditazione di stampo buddista (da cui ha eliminato però la componente religiosa), ma che si propone di entrare a far parte delle azioni che la persona compie quotidianamente portando a un nuovo, e migliore, stile di vita.

“Aumentare la consapevolezza dei nostri stati mentali, cioè delle emozioni, dei pensieri e delle sensazioni fisiche, accresce la flessibilità mentale”, va avanti Castaldo: “In questo modo vengono meno gli automatismi, e la mente è più lucida”. Cosa significa? Che è più probabile che reagiamo alle situazioni, anche quelle di difficoltà, con delle vere e proprie risposte piuttosto che con delle reazioni impulsive: come se d’un tratto quella sorta di pilota automatico che normalmente affianca i nostri processi mentali si spegnesse e lasciasse spazio al vero io.

Come si fa?
Si coltiva attraverso esercizi, dapprima formali e in presenza di un insegnante, e in seguito informali. Esistono corsi appositi, pianificati secondo precisi protocolli, dove si percorre l’introduzione alla meditazione guidata. Si parte con il body scan, cioè la scansione col pensiero del proprio corpo, per imparare a portare l’attenzione alle sensazioni fisiche del momento; ci si allena a focalizzare sul proprio respiro e sul silenzio, senza un obiettivo particolare se non quello di imparare a controllare la propria attenzione, prima dentro e poi fuori dall’aula. E qui subentrano le pratiche informali, in cui si viene invitati a portare lo stesso tipo di attenzione, così selettiva, anche durante alcune azioni quotidiane, in modo che lo stato di mente lucida si abitui a essere richiamato all’occorrenza.

Perché si pratica
Entrata nella pratica clinica dalla fine degli anni ’70 come rimedio allo stress grazie allo studioso di medicina molecolare del Mit Jon Kabat-Zinn, ora la mindfulness è considerata da diversi esperti una leva per l’avviamento delle pratiche cognitive di nuova generazione, e viene indicata in paesi come Usa, Gran Bretagna e Olanda come supporto per la cura della depressione.

“In Italia per la mindfulness non esiste una vera e propria prescrizione”, chiarisce Castaldo, “anche se viene insegnata in molte scuole private ed è possibile accedere ai vari studi osservazionali che sono in corso presso le strutture pubbliche”. Attualmente questi studi sono molteplici: la ricerca si è aperta infatti negli ultimi anni a declinazioni che spaziano dalla comprensione dei disturbi alimentari e il trattamento dell’obesità alla gestione dell’ansia e delle crisi di panico, del disturbo ossessivo compulsivo, del dolore cronico, fino a volerne investigare gli effetti anche nel mondo dell’infanzia e nel campo dell’apprendimento.

Ma è anche fuori dall’ambito clinico che la mindfulness riscontra un alto tasso di gradimento del pubblico. Alle strutture specializzate si rivolgono infatti sempre più spesso persone che vogliono percorrere questa strada per provare ad aumentare le proprie capacità di concentrazione in vista di traguardi importanti come quelli delle performance sportive, del mondo dell’imprenditoria e dell’alta finanza. E sì, è proprio qui che si stanno instaurando i più grossi interessi collaterali, con un giro solo negli Usa dell’ordine di miliardi di dollari.

Funziona?
Sono stati condotti e sono in corso numerosi studi randomizzati e metanalisi in merito all’efficacia della mindfulness in ambito clinico, che per molti aspetti è ancora un dibattito aperto all’interno della comunità scientifica. A oggi il protocollo che si è dimostrato più potente in terapia cognitiva è quello per la prevenzione delle ricadute della depressione maggiore. “Un protocollo che è stato validato sia attraverso test del tipo prima-e-dopo su ampi gruppi di persone, sia attraverso dati fisiologici”, spiega Castaldo. A seguire, quello per il trattamento dell’ansia.

Cosa dicono le neuroscienze
Il versante dove la ricerca sta provando a dare risposte più immediate è sicuramente quello delle neuroscienze dove, in particolare grazie alle nuove risorse strumentali, è possibile oggi raccogliere informazioni sempre più dettagliate e in tempi anche rapidi sugli effetti della mindfulness sul cervello. Attraverso le tecniche di imaging cerebrale, per esempio, sono stati individuati cambiamenti nella morfologia di alcune aree della corteccia in seguito a trattamenti di almeno 8 settimane, e in particolare in quelle deputate alla memoria, all’empatia, alla consapevolezza di sé e allo stress.

Il primo studio completo in merito, condotto presso il Massachussets General Hospital, è molto recente ed è stato pubblicato nel 2011: guardando il cervello da vicino, gli scienziati hanno notato in particolare un ispessimento della materia grigia a livello dell’ippocampo, che detiene un ruolo centrale nell’apprendimento e nel processo di memorizzazione, mentre parallelamente si andava assottigliando quella corrispondente all’amigdala, coinvolta invece nei meccanismi di paura, ansietà e stress. Tutti cambiamenti che non si sono manifestati nei gruppi di controllo.

Un altro studio di riferimento è invece del 2012, quando attraverso la risonanza magnetica funzionale un gruppo dell’Università dell’Oregon ha registrato, in seguito a un programma di meditazione, un significativo aumento delle connessioni che trasferiscono i segnali attraverso il cervello, così come un ispessimento del tessuto (la mielina) che riveste e protegge le fibre nervose, e in particolare nella corteccia cingolata anteriore, che è coinvolta nella gestione dell’autocontrollo. Dati ancora più recenti sono quelli della Brown University, dove la pratica della mindfulness è stata associata a un vero e proprio meccanismo neurofisiologico che coinvolge il ritmo alfa, cioè le oscillazioni neurali che normalmente registriamo attraverso l’elettroencefalogramma, e che sarebbero connesse alle nostre capacità attentive.

L’ultima frontiera delle neuroscienze è poi quella di provare a comprendere come la mindfulness riesca a esercitare un effetto clinico attraverso la regolazione emozionale, il che consentirebbe di spiegarne anche scientificamente i casi di successo sull’ansia, la depressione, i disturbi della personalità, come ci ha raccontato Alessandro Grecucci, psicoterapeuta e neuroscienziato presso il Dipartimento di scienze cognitive dell’Università di Trento. “A questo proposito sono pochi ancora i dati disponibili, ma diversi gli studi in corso d’opera”, ci racconta. Come quelli condotti assieme ai suoi collaboratori, che hanno consentito di dimostrare un aumento della capacità a modulare le emozioni nelle persone che praticavano questo tipo di meditazione e che, ci fa sapere, saranno presto oggetto di pubblicazione.

Le critiche e i rischi
C’è chi considera la mindfulness un mero fenomeno di moda e una macchina per il business. E in parte, ammettiamolo, lo è: siamo i fatto tempestati da messaggi che ce la propongono come una specie di “trattamento benessere per la mente” in soccorso alle nostre vite frenetiche e che tendono spesso, purtroppo, a banalizzarla. Ma ci sono anche avvertimenti e critiche più costruite, che mettono in guardia da veri e propri effetti collaterali, e che provengono perlopiù da chi il metodo lo conosce bene, lo studia e in generale lo promuove.

Sono gli stessi sostenitori, per esempio, a ricordare di tenere ben presente che essa non sostituisce, ma semmai affianca, la psicoterapia e gli strumenti convenzionali della psichiatria. Gli esperti sottolineano poi il rischio che pubblicizzare la pratica con troppo entusiasmo possa riflettersi in un’ondata di delusione, nell’eventualità che i risultati non soddisfino le aspettative. “È necessario quindi”, precisa anche Castaldo, “procedere con cautela nell’informazione, e non pensare mai alla mindfulness come una panacea per tutti i mali”. Un’altra possibilità da non sottovalutare secondo gli scienziati è che pazienti predisposti incorrano in una sorta di distacco dalla propria persona, come se stessero guardando una specie di film, così come si potrebbero manifestare effetti negativi a livello della sfera sociale.

La mindfulness in psicoterapia, insomma, non è adatta a tutti, non è un gioco e anzi, “richiede tempo, impegno e disciplina” sottolinea la dottoressa. Per questo è necessario rivolgersi solo ed esclusivamente ai centri qualificati, in possesso delle certificazioni necessarie. “Una cosa fondamentale, inoltre, è che chi lo insegna sia a sua volta una persona che lo pratica su di sé e che non abbia una preparazione esclusivamente tecnica”, spiega Castaldo, “perché non è solo il certificato che garantisce la qualità dell’insegnamento che si riceve, ma anche la capacità stessa dell’insegnante, e questo aspetto è stato provato scientificamente”.

error: Contenuto protetto!